di Giuseppe Barbato

Premessa: l’analisi tattica del match di ieri riguarderà solo i primi 50 minuti. Gli altri, per ritmo e motivazioni, sono garbage time, come si dice nel mondo degli sport americani. Significa andare oltre la data di scadenza dell’incontro, ucciso da una Salernitana confusa e rassegnata più che dal Torino. Perché se oltre agli errori si aggiunge la sfiducia mentale che la squadra sembra esprimere la situazione diventa difficile. Paulo Sousa, per carattere, non nasconde i problemi e i suoi bagni nel realismo calcistico sono spesso rigeneranti. Ieri ha parlato di mentalità, di sinergia. Sono messaggi rassicuranti, però non raccontano la partita né i problemi che la squadra esprime. Sì, esistono gli episodi ma non spiegano sconfitte del genere.

Parlare del campo significa porsi una domanda: l’è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare come diceva Gino Bartali? Non proprio: l’è tutto sbagliato, l’è nulla da rifare. Il Torino si è presentato come suo solito: tante palle lunghe per risalire il campo, presidio forte della mediana e costante riaggressione. Quindi con pochi elementi davvero protagonisti: Zapata e la mediana. Il colombiano è l’ennesimo giocatore che beneficia del Gyomber di quest’inizio di stagione, il resto lo fa Tameze che riesce sempre a trovare la posizione giusta e di conseguenza il pallone. Il resto della squadra non fa granché: Seck grandi dribbling e poco altro, Lazaro non spinge, Bellanova alterna buoni spunti a brutte giocate, Radonjic si vede poco.

Potenzialmente c’è modo per reggere il colpo, eppure la Salernitana consegna la partita: lo fa sull’ennesima palla ferma, i progressi visti nel primo periodo della gestione Sousa sono scomparsi. Subisce gol quando marca a uomo, subisce quando marca a zona. Sembra strutturalmente incapace di leggere movimenti e finte delle avversarie, si tratta di un problema che va oltre il singolo errore di Bohinen. Il resto è dato dagli enormi problemi in costruzione che diventano poi problemi difensivi quando la palla viene persa. La Salernitana ha il suo fraseggio, molto insistito fino allo strenuo avversario che non riesce più a stargli dietro. Da tempo non funziona più perché mancano una serie di cose.

Mancano movimenti di coppia, mancano giocatori che si liberano oltre la prima linea di pressione, mancano giocate in verticale (ieri solo Łęgowski è riuscito), mancano sganciamenti efficaci, mancano linee di corsa che attirano avversari. Per certi versi sembra la Salernitana dell’ultimo periodo di Davide Nicola. Tutti si aspettano palla, nessuno lavora prima di averla tra i piedi. A quel punto resta la palla lunga, con mezza squadra che scappa in avanti e l’altra che rimane indietro. La zona centrale, lì dove può trovarsi la seconda palla, resta presidiata solo dagli avversari. Con ripartenze sanguinose da gestire solo con recuperi affannosi. E poi c’è Botheim: il norvegese, anche ieri, ha giocato una buonissima partita. A dispetto della vulgata che lo vede come incapace di pungere.

Bisogna capire chi è Botheim, cosa può fare. Se noi pensiamo la prima punta come il Marcantonio di due metri che fa a pugni e le sponde allora Botheim non è quel giocatore. Però il calcio non è fatto solo di epigoni di Milan Djuric, con tutta la stima per il bosniaco. Pensiamo la prima punta invece come giocatore che ha una cifra tecnica da offrire ai compagni. A cosa può fare se la squadra gioca più con i piedi, con tanti giocatori vicini per attirare i difensori e poi creare la profondità. Pensiamo a Botheim non da solo nello stretto, tra Scilla e Cariddi (ieri erano Schuurs e Buongiorno) ma con altri attaccanti che conoscono il suo codice calcistico. Allora può fare la prima punta, anche molto bene come dimostrò contro la Fiorentina e nel secondo tempo di Napoli.

La Salernitana, in questo momento, vive un colossale equivoco tattico con tanti giocatori spaesati e sconnessi tra loro. È logico che in questa situazione la fantasia e la tecnica di Cabral risalta ma resta quasi fine a se stessa. Cabral, nel vero sistema di Paulo Sousa, darebbe ulteriori opzioni a una squadra potenzialmente favolosa: oggi è un freak che gioca da solo contro tutti. Qui deve intervenire il tecnico: da un lato serve ricostruire un gioco corale, dall’altro Cabral non deve isolarsi. C’è una situazione del primo tempo che lo descrive: riceve palla sulla propria trequarti, con due giocatori del Torino che lo pressano. Vicino si pone Łęgowski, perfettamente orientato per uno scarico vicino: Cabral cerca un dribbling difficilissimo, per fortuna lo trova, ma ha rischiato tantissimo. Perché complicarsi la vita? Giochiamo insieme. Perché solo insieme si vince.

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