di Giuseppe Barbato

Tra una settimana riparte la Serie A. Per arrivare al meglio proviamo a entrare nel merito del lavoro di un allenatore, ponendoci una serie di domande: come lavora un allenatore al giorno d’oggi? Come districarsi bene in un gioco che aggiunge sempre più varianti? È vero che nel calcio di oggi la creatività individuale viene ingabbiata? Ha ragione di esistere il dibattito “Adani vs. Allegri”? Esistono ancora gli episodi nel calcio? Esistono gli scienziati che non mettono i giocatori al proprio posto?

Il tifoso spesso resta in trappola tra le sensazioni che prova guardando le partite e un racconto del calcio che non gli corrisponde. Esiste un dibattito in merito che però finisce per alimentare ulteriori divisioni e confusioni. Ne abbiamo parlato con Dario Pergolizzi, allenatore UEFA B e collaboratore di L’Ultimo Uomo che in un suo articolo dell’anno scorso ha provato a spiegare quali sono le strade del calcio di oggi. Con lui abbiamo ripreso i fili di quanto scriveva un anno fa e individuare degli spunti sul lavoro di Davide Nicola.

Tu hai fatto dei ragionamenti attorno alla complessità e alla metodologia nel calcio. Come rendere questi concetti in maniera efficace, presenti nel calcio di oggi, togliendo quell’immagine da fuori per cui se parli di complessità vuoi complicare il calcio o renderlo una cosa meccanica?

Bisognerebbe introdurre la complessità alle persone, far capire di cosa parliamo. Nel pezzo che ho scritto, come premessa, sono partito da come viene intesa la complessità nel senso comune. In italiano ”complesso” è utilizzato sinonimo di “complicato”, lo fanno molte persone e in passato l’ho fatto anch’io. Non è un errore per carità, alla fine la lingua reale è sempre quella che si parla nell’uso comune, però è importante spiegare la differenza in questo contesto. Bisogna intendersi sul fatto che complessità non equivale a complicato, ma è invece una misura, una proprietà; non è solo un aggettivo, come può esserlo complicato. Questo è già un primo passo. La complessità va vissuta, va accettata; poi si possono studiare alcune cose che succedono al suo interno. 

Serve anche chiarire quando un sistema è complesso: lo è quando le parti che lo compongono non possono essere separate le une dalle altre, e funzionando insieme si influenzano a vicenda. In questo caso non vediamo il sistema come somma delle singole parti, ma nel suo complesso, con un significato finale, con delle proprietà diverse rispetto a quelle delle singole parti. Può sembrare un ragionamento astratto, comprendo che la gente si spaventi. In realtà, però, noi la complessità la viviamo tutti i giorni, noi stessi esseri umani siamo complessi. Faccio un esempio stupido: se ti stacchi un braccio ci sono una serie di complicazioni, non basta riattaccarlo e tutto ritorna come prima. Semplicemente il calcio, essendo un fenomeno umano, è chiaro che sia a sua volta un sistema complesso. Studiare la complessità significa avere degli strumenti in più riguardo le cose che succedono nel calcio giocato. La gente magari si spaventa perché legge “complessità”, lo associa a “difficile” e magari si pensa “vogliono trasformare il calcio in una cosa elitaria” ma non è affatto così. Operare in quest’ottica non è facile, però è molto utile secondo me. Non solo nel calcio.

Può essere un problema il fatto che dal punto di vista tecnico-tattico si parla di moduli, di schemi quando si va verso un discorso diverso e quindi si vede un calcio molto codificante, com’è quello di Gasperini all’Atalanta, come limitante della creatività del giocatore quando invece la codifica è la struttura nella quale poi il giocatore si esprime?

Su questo c’è ancora confusione. Nel dibattito comune, e a volte anche i giornalisti e alcuni allenatori, quando se ne parla, si tende ad associare un gioco propositivo all’utilizzo di schemi. In realtà non è più così ad alti livelli, sicuramente non sempre, soprattutto all’estero. Certo, ogni allenatore ha i suoi livelli di codifica, però c’è un raggio entro cui muoversi: secondo me l’ideale è dare una codifica minima di partenza, creare una base concettuale comune, un linguaggio con cui capirsi, e da lì in poi indirizzare e adeguarsi al comportamento della squadra e dei singoli. Diversamente perderesti molto tempo ad avere dei risultati, cioè a vedere un transfer, un’intenzionalità di squadra. Soprattutto ad alti livelli c’è una pressione temporale per cui forse è ritenuto adeguato codificare di più per “velocizzare” il comportamento della squadra e trasmettere più rapidamente le cose. Ma questo non sempre si traduce in un miglioramento effettivo, e non è nemmeno detto che arrivino dei risultati migliori. Gli allenatori più bravi riescono a fare entrambe le cose: migliorare una squadra e farlo in poco tempo. Secondo me lo studio della complessità è uno strumento per trovare il modo migliore di legare entrambe le cose. Se io so come funziona un sistema complesso, come può agire una persona nella complessità, posso lavorare meglio per farlo esprimere creativamente.

Tutti, quindi, codificano, anche quelli più aperti alla creatività: magari in modo diverso ma lo fanno. È raro che un allenatore dica ‘non faccio niente, li metto lì e li faccio giocare’. Quello può essere uno strumento iniziale per conoscere la squadra, ma poi arriva la codifica, sotto forma di vincoli o principi. Faccio un esempio pratico: se vuoi che la tua squadra costruisca dal basso senza lanciare più di tanto, hai (almeno) due strade. 1) dire: il portiere la passa al centrocampista, che poi la scarica sul difensore, che poi la passa all’esterno…. Codificando da A a B; 2) dare dei principii: non ordini la sequenzialità dei passaggi, ma piuttosto offri inviti a riconoscere le possibilità di gioco; “muoviamo la palla finché non troviamo lo spazio tra le linee” oppure “muoviamo la palla finché il terzino non si libera in una certa situazione”, non dici quando e come. Questo tipo di “linee guida” possono essere esplicite oppure implicite, cioè contenute all’interno degli ambienti di allenamento. Anche queste sono codifiche, ma rispettano l’atteggiamento individuale, l’interpretazione individuale. Però non basta, serve anche coerenza: se tu fai questa cosa qui e contesti al giocatore di aver sbagliato il quando e il come ti stai contraddicendo, devi lavorarci senza rinnegare ciò che pensi e rispettando il processo. Non è obbligatorio ragionare così, sia chiaro. È solo il modo che io trovo più adatto.

Ti faccio un esempio pratico preso dalla Serie A. Possiamo applicare questo ragionamento alla Juventus dell’ultimo mese e mezzo di campionato? Magari Allegri è partito senza dare una codifica e poi ha trovato un modo per impostare il lavoro e ciò ha portato a dei risultati.

Non so se sia possibile che all’improvviso in un punto della stagione succeda una cosa del genere, è  più una questione di approccio generale. Ci possono essere dei momenti della stagione in cui ci sono delle difficoltà in una certa situazione di gioco e allora si può cambiare il modo di approcciarla, però eventualmente cambi codifica o principio. Non credo che ci siano allenatori che vengono folgorati all’improvviso, soprattutto ad alti livelli. La differenza non è ‘ora codifichiamo’ o ‘ora non codifichiamo’; casomai è più un criterio di lavoro generale.

Abbiamo visto Luis Enrique su Twitch durante il Mondiale raccontare come lavora, quali sono i suoi concetti, dialogando in diretta col suo staff tecnico e con gli appassionati. Lo vedi possibile in Italia?

Luis Enrique è diventato con gli anni una figura anomala, nel senso che sta caratterizzando il suo personaggio. Io lo apprezzo sempre di più, sinceramente. Come metodo di lavoro ha un’estrazione particolare che gli rende naturale lavorare come fa, per il resto secondo me è difficile che in Italia arrivi all’improvviso uno che ragiona così, però mai direi mai. Con i media parla tanto di cose concrete di gioco, sul perché sceglie di giocare in un modo o perché un giocatore può aver fatto certe scelte. Questo non molti allenatori in Italia lo fanno, magari per superstizione o per paura di rivelare troppo.

Ci sono allenatori molto preparati, dal punto di vista strategico e tattico, che si comportano così. Mi viene in mente Simone Inzaghi, lui nelle interviste non entra spesso nello specifico delle scelte, lo vedo più sviare: magari non gli va di parlarne o non si sente in grado. Sono molto attratto dagli allenatori che sanno parlare di queste cose anche fuori dal contesto squadra. Non è fondamentale in realtà, anzi è un aspetto marginale per un allenatore forse, però per me è importante, da allenatore, sentire un professionista di alto livello spiegare cosa voleva ottenere, come, cosa ne pensa di com’è andata alla fine, e così via.

Cosa manca ai media per sviluppare un certo discorso tecnico-tattico? A volte c’è una ritrosia a parlarne perché non si vuole entrare o non si ritiene all’altezza di farlo.

Non so se sia un problema italiano. Mi capita spesso di vedere video di allenatori all’estero che parlano di calcio in questo modo. In Italia meno, però forse è un bias dato da ore e ore di esposizione mediatica in più degli stessi personaggi. L’impressione è quella di una carenza, da entrambe le parti. Non si va nella direzione della costruzione di una coscienza collettiva propositiva, non nel senso di stile di gioco, ma di sviluppo di qualità del discorso. C’è una vis polemica costante, il desiderio di ridurre le cose a una spiegazione convincente. Questo inevitabilmente ci porta a rincorrere ragionamenti più orientati al risultato che al processo. Trovo somiglianze su questo anche in altri temi ricorrenti in Italia, penso al dibattito sulla meritocrazia e sulla competenza ad esempio. Penso che sia pericoloso rincorrere il risultato, la performance, il rendimento finale, senza però capire come si arriva a performare, cosa significa mettere chiunque in condizione di poter dare il suo meglio, e non giudicare partendo da ciò che si è ottenuto senza analizzare da dove si partiva e di cosa si aveva bisogno per farlo.

L’essere umano si muove in maniera non lineare verso gli scopi che vuole raggiungere. L’apprendimento stesso non è lineare. Questo comporta che inevitabilmente farà degli errori che non combaciano con gli obiettivi, ma neanche col processo di apprendimento: solo perché sto sbagliando non significa che io non stia imparando, anzi! Questo mette chi fa calcio in una situazione difficile quando deve spiegare perché i risultati non arrivano, mentre chi sta dall’altra parte può avere interesse a mettere in difficoltà chi sta facendo male. Se dovessi sottolineare una cosa sola, forse direi che siamo troppo vincolati al risultatismo, non inteso come ‘vincere trofei’ ma come “trovare spiegazioni lineari in base al risultato ultimo” che può essere anche sbagliare un tiro/un rigore decisivo. Magari vediamo un giocatore che sbaglia una giocata e quindi diciamo ‘non è in grado di fare questa cosa’. Lo cassiamo, gli assegniamo un valore assoluto, ci costruiamo sopra una narrazione e cadiamo nell’imbuto. È uno dei problemi principali, secondo me.

Qui entra un altro tema, cioè il concetto delle partite decise dagli episodi. Esistono ancora gli episodi nel calcio oppure è finita quell’epoca lì?

L’episodicità è il fulcro del gioco, se non lo si riconosce non si è pronti per affrontarlo. Poi ci sono persone spaventate da ogni tipo di approfondimento che in apparenza esula dal pallone stesso, perché pare che se cerchi spunti altrove, se ampli il discorso, allora vuoi negare l’episodicità. A me sembra un’associazione di idee incomprensibile, anzi, se vai a studiare il pensiero della complessità scopri proprio l’alta variabilità delle cose. Magari succede qualcosa di inaspettato tra due squadre diversissime per rendimento. oppure un giocatore in un momento fa una giocata che non aveva mai fatto prima. Sono tanti gli esempi, è sbagliato a pensare che voler andare nel profondo delle cose equivalga a negare l’episodicità. È tutto volto a trovare delle chiavi di lettura migliori per muoverci meglio tra tutte queste variabili.

A volte si ha la sensazione che gli allenatori fanno un lavoro di preparazione delle partite e poi non capiscono le partite. Cosa vuol dire ‘leggere le partite’, ‘indovinare i cambi’, ‘indovinare la formazione’? 

Secondo me rientra nel discorso di prima, cioè il giudizio in base al risultato. Se metto un giocatore che segna allora ho letto bene la partita, se invece non segna, magari giocando anche bene, allora non ho letto bene la partita. Ciò è presente a tutti i livelli. Di sicuro è un’abilità saper riconoscere tempestivamente una mossa che può aiutare la squadra o mettere in difficoltà l’avversario. È una cosa molto difficile perché tu, nell’immediatezza, non vedi tutto quello che succede; sei vincolato dalle tue emozioni e attenzioni che stai dando su cose che erano state preparate prima, e magari non ne vedi altre. Ecco perché gli allenatori “scommettono” quando fanno dei cambi. Certo, ci sono anche allenatori che preparano a tavolino le sostituzioni, così come ci sono quelli più fortunati e quelli meno fortunati.

Ad alti livelli avere staff numerosi, tanti strumenti di analisi e un costante aggiornamento ti consente di vedere cose che dalla panchina non vedi. A questo proposito va precisata una cosa: la prospettiva con cui l’allenatore vive la partita è diversa da quella dei giocatori e ancora diversa da quella che vede il pubblico dagli spalti o in TV. Tre metri sono lo stesso spazio a livello geometrico, ma vengono visti e vissuti in modi diversi in base alla posizione e al nostro “ruolo” nel sistema. Alcune cose che ci sembrano evidenti o facili dall’alto, in campo magari non lo sono, perché la realtà del momento è diversa. Anche per questo è difficile leggere le cose nell’attimo in cui succedono.

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