di Giuseppe Barbato

La metafora cinematografica inizia a essere abusata per raccontare l’incredibile stagione della Salernitana, eppure può offrire ancora degli spunti utili di racconto. Ogni film, prima di diventare tale, nasce nella mente di una persona e poi diventa realtà su carta: è la sceneggiatura il primo segno del film. Nei manuali che spiegano quest’aspetto si racconta come i film, considerando una lunghezza standard sui 120 minuti, abbinoa tre punti di cambiamento di cui due “turning point” che corrispondono al 30° e al 90° dello stesso. Studiando la stagione granata è accaduto esattamente questo, in particolare dal punto di vista tattico. Allora, per raccontare il campionato tattico dei granata, faremo esattamente la cosa: ne parleremo come se fosse la sceneggiatura di un film.

I ATTO: IL CREPUSCOLO DEGLI IDOLI

1° Scena: Dove si balla? In difesa. La Salernitana che sbarca in Serie A è una squadra che sistematicamente rinuncia al possesso del pallone (ultima nello scorso campionato di B), punta su una verticalità così insistita da far impallidire i grattacieli di Dubai e contro avversarie strutturate non ha mai dimostrato di impensierirle o ha sfoggiato la solidità difensiva vista nel resto della stagione. Eppure la fiducia verso Castori era tale che gli si attribuivano doti da taumaturgo, ignorando perfino la sua storia calcistica in A fatta di inadeguatezza e perenne attesa del destino. Storia che pure in questa circostanza gli ha presentato il conto e lo ha fatto molto presto, contro due avversarie molto diverse come Roma e Torino: due sconfitte per 4-0, dove la squadra a malapena supera la metà campo e il pallone è ritenuto un orpello inutile. Il culmine della futilità è il primo tempo contro i giallo-rossi: 63 passaggi di cui 27 riusciti. Già alla terza giornata si capisce che la Salernitana non ha le qualità tecnico-tattiche per farcela, eppure continua questa fiducia per via delle tre gare successive: con l’Atalanta sono 70 minuti di orgoglio e furore fisico, spenti con il passare dei minuti e l’incombere dei cambi; con il Verona si rivede la squadra dell’anno prima e il pareggio sta perfino stretto per via delle occasioni sbagliate da Simy e Djuric; con il Sassuolo il risultato è giusto ma l’orgoglio messo in campo nel secondo tempo maschera un match dove gli uomini di Dionisi hanno giocato al gatto col topo colpendoci al momento giusto e gestendo senza troppi affanni.

2° Scena. Riviera ligure. Le due partite con Genoa e Spezia chiuderanno l’esperienza del tecnico di San Severino Marche e anch’esse servono a mascherare una realtà che salterà fuori col tempo: la Salernitana, in fase di possesso, ha dei rari lampi di Serie A ma un’incapacità di fondo nel gestire il pallone; in fase di non possesso dipende dalle squadre avversarie e dalla loro abilità. Contro il grifone finisce bene proprio per questo motivo: l’attacco genoano è talmente spuntato che i giovanissimi Bianchi e Kallon fanno quello che possono, Ekuban sbaglia una chance da 0.63 xG e senza Belec davanti. Probabilmente perfino i giocatori ne avevano coscienza, di quel match resta l’immagine di Ribery che obbliga i compagni a tornare sotto la curva e applaudire i 10mila di quel pomeriggio. Lo Spezia non è uno squadrone ma è giovanissimo e con quel pizzico di qualità che serve: nel secondo tempo fa quello che una squadra di A deve fare. Approfittare di un avversario convinto che le bastino 45° discreti e un gol di Simy a porta vuota. Nella ripresa i bianchi tengono un baricentro medio, 54 metri, stando compattissimi, in soli 15 metri: la Salernitana tiene lo stesso baricentro ma è distanziata di 35 metri, con posizioni casuali. Il disastro di una squadra che ha perso lo spartito.

3° Scena. Il talento sacrificato all’altare dello stoicismo. Sono le settimane in cui nasce il “caso Bonazzoli”: il centravanti di Manerbio, che aveva iniziato alla grande la stagione con tre gol nelle prime due gare, sembra essere il perno centrale della squadra in attesa di recuperare il miglior Simy ma non è così. Nel volgere di pochi giorni cede nelle gerarchie: con l’Atalanta si deve accontentare di una mezz’ora, nella quale dà un assist a Obi che sarà vanificato dal palo; nelle tre partite successive colleziona 62 minuti e con lo Spezia non viene convocato, ufficialmente per infortunio. Il ritratto che emerge, sulla carta, è quello del giocatore indolente che non si sacrifica per la squadra. La realtà è più semplice: il bomber di Manerbio gioca di fioretto, non colpisce col martello e la richiesta di Castori è quella della potenza. Gondo ritorna al centro del progetto, favorito dalla marcatura con l’Hellas: tanti falli guadagnati, risalita del pallone riuscita e poco altro. Insomma, una Salernitana che sposa il motto epicureo “sopporta e astieniti” ma non quello dei tifosi: “Salerno lotta col cuore”.

II ATTO: CRONACA DI UNA MORTE ANNUNCIATA

1° Scena. Il trionfo della volontà. Nel documentario di DAZN dedicato a Walter Sabatini il direttore racconta un cruccio di Franck Ribery: l’asso francese si accorge come la squadra viva allo stesso modo la vittoria e la sconfitta, quando non dovrebbe essere così. Si accorge subito che qualcosa non funziona, già contro il Torino dà dei primi segni di insoddisfazione. Nel calcio di oggi non basta la qualità tecnica per essere un campione: serve una forza di volontà enorme, che ti fa combattere fino allo strenuo. Ciò che ha reso Ribery, ragazzino di Marsiglia, Franck Ribery il campione. Le prime partite della gestione Colantuono sono esattamente questo: l’alieno si carica la squadra sulle spalle e gioca match esaltanti, sfornando assist, abbattendo avversari con facilità irrisoria e sfiorando gol incredibili. Con l’Empoli guida la vana riscossa della ripresa, con il Venezia ribalta la gara da solo, con il Napoli Di Lorenzo sulla linea ferma una punizione che sta telecomandando verso l’incrocio dei pali, con la Lazio è un legno a respingere l’eventuale 2-1 che avrebbe risvegliato un match addormentato presto dagli uomini di Sarri. La volontà non è eterna e muore in un momento preciso: è il 67° di Salernitana-Sampdoria. Ribery cade a terra, si fa male: l’infortunio non sembra così grave ma fa segno di cambio, in maniera eloquente e con nervosismo. Perfino gli alieni cadono sulla Terra e perdono il loro status. Da lì in poi inizia il de profundis.

2° Scena. Il miglio verde. L’attesa della nuova società e delle decisioni dei due trustee non ha il sapore emozionante del film con Tom Hanks, che racconta con enorme delicatezza il destino di un condannato a morte. Potrebbe assomigliare a Godot, a Beckett, al teatro dell’assurdo. Si avvicina tanto, forse troppo, allo stato di un malato degenerativo che si accinge a morire. Sono i 40 giorni peggiori della stagione granata: dal 21 novembre, giorno del match con la Samp, al 31 dicembre, che stabilisce il termine per la cessione del club. Sono sei partite, nelle quali realizza un punto, quello raggiunto in extremis a Cagliari, e produce un totale di 3,88 xG (0.65 a partita): praticamente un K.O. tecnico che emerge drammaticamente solo nelle ultime tre partite perché la Samp nel secondo tempo, col risultato già acquisito, smette di giocare; perché il Cagliari è modestissimo e non sa approfittarne; perché la Juventus è talmente devota al cortomuso di Allegri da non curarsi del resto. Qui dovrebbe emergere Colantuono ma la sua lunga inattività presenta il conto: l’allenatore non c’è più, la società nemmeno. La squadra va di conseguenza: resta il pubblico che commuove l’Italia intera ma la commozione non fa i campionati. Le partite con Milan, Fiorentina e Inter tatticamente non dicono niente perché la Salernitana non c’è.

3° Scena. Strange days. Gennaio è un mese interlocutorio, per via del Covid e del tempo necessario alla nuova società di insediarsi completamente. La Salernitana gioca tre partite di cui sostanziale prosieguo del mese precedente: alla Lazio bastano 9 minuti per segnare due gol e uccidere la partita, col Napoli la Salernitana segna nell’unica volta in cui supera la metà campo e poi sono 90° di difesa a oltranza e palloni spazzati in tribuna (10′ di possesso palla in tutta la gara, di cui 8’20” nella propria metà campo). Prima però c’è il match del Bentegodi che sembra uno “zigoviaggio” del film di Kathryn Bigelow: la Salernitana stoica che aveva pensato Castori ritorna in vita, sfrutta alla perfezione le disattenzioni del Verona e poi si difende con ordine. L’Hellas del finale ha una sola grande occasione con Barak ma sbatte sui muscoli di Gagliolo. Sono i primi tre punti della presidenza Iervolino: il presidente è a casa, lontano dalla squadra. Sembra una coincidenza, vista oggi è un segno del destino.

III ATTO: MISSION IMPOSSIBLE

1° Scena. Tutti gli uomini del presidente. Arriva febbraio, arriva l’instant team: la squadra all’inizio raccoglie due pareggi, subisce un po’ troppo Spezia e Genoa ma dà primi segnali di risveglio. Il lavoro di Walter Sabatini si vede: l’inversione di tendenza è netta per quanto riguarda il possesso palla, il PPDA, il field tilt, le occasioni create, l’organizzazione di gioco. Ma non basta: è evidente che serve qualcosa in più. Colantuono, per quanto si impegni, rappresenta la Salernitana del passato e il futuro va verso altre strade. La scelta di Davide Nicola non è solo improntata alla fama del tecnico di Luserna San Giovanni, cioè dell’uomo dei miracoli: è volta al “tutto e subito”, alla conquista dell’avversario e del campo. Il match col Milan è il manifesto di intenti della nuova Salernitana ma in pochi se ne accorgono: sembra una giornata opaca degli uomini di Pioli ma la verità è che la Salernitana, col passare dei minuti, guadagna campo e palloni. Ha spazi per giocare e sviluppare le transizioni, si concede perfino azioni manovrate di qualità. Quel manifesto viene portato avanti nelle gare successive ma la vittoria non arriva: contro Sassuolo e Bologna le topiche individuali vengono compensati da una fase offensiva di buona fattura, contro Torino e Roma arrivano due sconfitte immeritate e frutto di errori singoli pagati a carissimo prezzo.

2° Scena. Emil, figlio di Lars, custode tattico del Ragnarǫk. Nella mitologia norrena il Ragnarǫk è un evento apocalittico che segna il destino dei dei, dal quale poi sorge un mondo nuovo e segnato dall’armonia. L’impatto del regista norvegese nella Salernitana è identico: da lui nasce il mondo nuovo. Bohinen ha un altro passo: non è quello cadenzato dei fantasisti granata, non è quello esplosivo di Ederson, non è l’incedere militare di Fazio e Djuric, non è la frenesia di Mazzocchi, Kastanos e Ranieri. È il dinamismo e l’eleganza della nuova Premier League: motore infinito, infatti nessuno corre quanto lui, palloni recuperati come se fosse un mediano, passing game sul corto e sul medio di rara precisione, sempre disponibile al passaggio e con percentuali spesso superiori al 90%, e un’intensità sui contrasti inaccettabile per il calcio italiano, con gli arbitri che sistematicamente lo penalizzano. Il cambio di modulo è solo il pretesto: Bohinen arriva quando è pronto per guidare la squadra. La svolta in classifica non è casuale: la Salernitana raccoglie i risultati quando lui alza il livello di gioco. Le immagini della riscossa granata sono tutte sue: a Genova, con un intervento in scivolata al 96° che toglie l’ultima chance ai doriani; a Udine, quando nel secondo tempo prende in mano la squadra e sballa i piani tattici dei friulani; con la Fiorentina, la cui continua aggressione ad Amrabat disarticola il gioco di Italiano ed esalta quello granata; a Bergamo, con uscite palla magnifiche e incursioni offensive che fanno tremare la difesa atalantina.

3° Scena. Il dottor Davide Nicola e l’hybris. Analizzando le 15 partite della sua gestione si notano solo tre match non all’altezza del suo lavoro: quelli contro Inter, Juve e Udinese. 11 gol subiti, nessuno segnato e un elemento in comune: la volontà di attaccare a ogni costo, senza quel criterio necessario nel calcio per farcela che è l’equilibrio. A San Siro si schiera con un 424, con Kastanos e Verdi in fascia; allo Stadium si rinuncia alla freschezza di Ederson e si punta su Perotti esterno mancino a tutta fascia; con l’Udinese Verdi viene schierato mezzala lasciando il centrocampo in balia dei muscoli di Walace, Makengo e Pereyra. Un allenatore a due facce, tipo dottor Jekyll e mister Hyde? No, un uomo che vuole “sbranare tutto”, la frase è sua, ma non può farlo se non ha le forze. Nella mitologia greca tutto questo ha un nome: hybris. E ogni volta che gli uomini sono stati guidati da quel sentimento sono caduti rovinosamente. A volte serve un passo indietro per raggiungere i propri obiettivi: che il mister ne tenga conto per il futuro perché quando non l’ha fatto la Salernitana ha pagato un prezzo altissimo.

EPILOGO: LA SERA DEI MIRACOLI

“Questa sera così dolce che si potrebbe bere, da passare in centomila in uno stadio”: così canta Lucio Dalla nella canzone che dà il titolo all’epilogo. La serata più dolce della storia della Salernitana è frutto sì della gentile offerta zuccherina giunta dalla Laguna, dove Maenpäa e soci difendono lo 0-0 con la sapienza che per secoli ha costituito la forza della Serenissima. Si deve soprattutto a un aspetto: la Salernitana nelle 15 partite della gestione Nicola ha raccolto 18 punti, una media da salvezza tranquilla. Questa è la differenza tra lui e i vari allenatori che lo hanno anticipato e quelli delle avversarie: ha raccolto più di tutti, proponendo il calcio migliore e raccogliendo risorse ovunque fosse possibile. La Salernitana il regalo dell’ultimo minuto se l’è meritato perché l’ha costruito prima, perché non si è mai rassegnata a ciò che il passato le offriva e ha alzato sempre l’asticella quando serviva. Solo che l’aveva fatto talmente tante volte da arrivare troppo stanca all’ultimo salto. Adesso c’è da costruire il futuro, da consolidare quanto fatto e da lavorare sui difetti emersi per raggiungere ancora una volta l’obiettivo. Perché la storia continua.

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