di Giuseppe Barbato

Affrontare la Fiorentina, alla vigilia, era complicato per lo stato di forma e la classifica dei viola. Grande merito va attribuito a Vincenzo Italiano, capace di trasformare col suo gioco un gruppo che veniva da due anni al margine della zona retrocessione a lottare seriamente per un posto in Europa. Una squadra moderna per idee, con combinazioni originali e uno sviluppo sui triangoli di alto livello; in grado di sopperire anche all’assenza di un terminale come Dusan Vlahovic. Anche la Salernitana è in un buon momento ma non era sufficiente per affrontare Milenkovic e compagni: serviva qualcosa in più, dal punto di vista tattico e delle energie nervose. Quello che la Salernitana ha saputo mettere in campo nei 90°. Andiamo nel dettaglio della sfida individuando tre fattori decisivi:

  1. La grande organizzazione difensiva del primo tempo (e perché è saltata nel secondo). La Fiorentina è una squadra che privilegia il possesso palla e lo usa come arma per stritolare, con pazienza, il proprio avversario come un serpente che si avvicina alla preda. Il primo obiettivo della Salernitana era non dare sbocchi alla manovra dei viola e lo ha fatto con una strategia chiara: lasciare il possesso nella metà campo avversaria per poi aggredire forte a metà campo, con linee molto strette e gabbie sugli esterni: nel caso in cui i viola saltavano la prima linea di pressione la seconda interveniva con un pressing 1 vs. 1 che toglieva il tempo di gioco al giocatore in possesso. Cosa riuscita a perfezione. Nella prima mezz’ora oltre al recupero palla c’era lo sviluppo immediato della transizione che si trasformava in azioni pericolose per Terracciano. Il gol di Djuric è frutto di tutto questo. Nella seconda parte del primo tempo i viola hanno cercato di alzare l’intensità senza riuscirci e qui ha fatto la differenza l’ottima organizzazione difensiva: i quinti, Mazzocchi e Zortea, stavano alti sugli esterni d’attacco viola che giocavano molto larghi per allargare le maglie difensive granata. Ciò avrebbe dovuto creare degli spazi tra quinti e mezzali dove inserirsi, i cosiddetti half-spaces, ma così non è stato: merito di Lassana ed Ederson, bravi a schermare ogni linea di passaggio o inserimento in quella zona di campo. In questo modo i viola non hanno avuto né l’ampiezza né la possibilità di inserirsi centralmente. A questo punto restava solo qualche cambio-gioco per sfruttare l’inferiorità rispetto al lato dove la Salernitana esercitava il pressing. Cosa riuscita ogni tanto con Biraghi e mai con Venuti e Ikoné, molto timidi a destra. Non a caso Italiano, nel corso della ripresa, li cambia entrambi inserendo prima Saponara e poi Odriozola. I due subentrati hanno cambiato il passo ai viola nel secondo tempo: il terzino spagnolo grazie alle grandi doti di spinta che hanno messo in difficoltà Zortea, che aveva speso molto nel primo tempo e che Nicola ha sostituito al momento giusto; Saponara dando imprevedibilità con giocate e movimenti centrali che puntavano a spostare la linea difensiva granata. Riuscendoci peraltro. Questa mossa tattica e il prevedibile calo fisico hanno causato il pari viola.
  2. Ranieri e Bohinen gli alfieri della rivoluzione di Nicola. Ogni proposta di calcio funziona quando hai giocatori in grado di attuarla (o quando l’allenatore sa adattarsi al materiale che ha). Le vittorie degli ultimi giorni hanno avuto protagonisti più evidenti, dal Verdi di Udine al Fazio di Marassi, e protagonisti meno appariscenti: a questo profilo corrispondono Luca Ranieri ed Emil Bohinen. Il difensore scuola viola nelle prime partite dell’instant team aveva dimostrato qualche limite, probabilmente dipeso dall’assetto a 4 della difesa. Il passaggio al 3-5-2 lo ha rimesso al centro del progetto ma con un ruolo diverso: quinto a sinistra. In quella posizione a Genova e Udine ha avuto due compiti precisi: rimanere più basso per non creare scompensi con la fascia destra, più votata alla spinta, e poi accompagnare la manovra in fase di possesso. L’assenza di Radovanovic e lo spostamento in mezzo di Fazio ha riportato Ranieri “in the zone”, da braccetto, ed è stato strepitoso: in fase di possesso è il difensore che gioca più palloni e sempre in maniera diligente; difensivamente è ovunque. Veloce nelle diagonali profonde, bravo a ripiegare sulla palla scoperta, raddoppia su Odriozola quando serve senza lasciare grossi scompensi alle spalle e recupera anche sei palloni (miglior dato insieme a Fazio). Passiamo a Bohinen che, giorno dopo giorno, sta conquistando la piazza con la sua qualità che si declina in maniere non banali: il norvegese non è il classico regista dal lancio illuminante. Lo avevamo detto già settimana scorsa che in lui ci sono gli echi del padre Lars e della sua esperienza in Inghilterra, dove Emil è nato. In cosa consiste? Passing game in fase di possesso, con passaggi sul breve sempre efficaci e sempre pronto a riproporsi con uno scarico o un inserimento, e fisicità sull’1 vs. 1 che si declina in contrasti e tackle decisi. Contro la Fiorentina si sono viste entrambe le cose e il risultato è stato ottimo: palla al piede ha dato affidabilità e sostegno continuo ai compagni; in difesa ha dominato il duello con Amrabat, aggredendolo molto alto quando serviva, e raddoppiando il pressing esercitato a turno dalle mezzali o dai quinti. Per fare tutto questo servono doti di corsa non indifferenti, non a caso nelle ultime tre gare è stato il primo per km percorsi. La “lentezza” che gli si addita va ribaltata: Bohinen non ha i picchi di altri suoi compagni ma corre bene perché sa dove correre e perché farlo, come insegnava Zeman.
  3. Non solo ‘palla lunga a Djuric’. Michele Tossani, noto tattico e data analyst, ha paragonato il bosniaco a Kenneth Andersson, svedese che nella A degli anni ’90 fece le fortune del Bologna dominando il gioco aereo che dava piattaforme utili a gente come Kolyvanov, Baggio e Signori. Certamente l’appoggiarsi a Djuric è importantissimo, e la sua assenza ha pesato tantissimo nel primo tempo di Udine, ma non è l’unica risorsa di questa squadra. Lo dimostra uno dei cardini offensivi di questa squadra: il lancio di Sepe sull’ampiezza, soprattutto a destra. Questa scelta di gioco si declina in due modi. Il primo è col pallone che arriva al quinto il quale lo può scaricare verso l’interno, con un inserimento della mezzala o a Bohinen che si sarà avvicinato, oppure indietro al braccetto che sarà salito e potrà portare il pallone e dare fluidità al possesso. Il secondo è con la punta che si sposta lateralmente per prendere il pallone di testa (Djuric o Bonazzoli) o sui piedi (Verdi e Ribery, sul centro-sinistra). In questo modo si crea un “buco” in zona centrale che viene immediatamente occupato dalla mezzala che fa l’inserimento sulla sponda, a questo punto il quinto si accentra e ha due compiti: accompagna la manovra e garantisce, in caso di palla persa, la marcatura preventiva. Cos’è successo? Tre giocatori si sono scambiati di posizione ma la struttura posizionale resta, cioè il 3-5-2, e la Salernitana ha uno sviluppo dell’azione. In entrambi i modi si ottiene la stessa cosa: la ricerca del “terzo uomo” che crea un disequilibrio nella struttura avversaria. Nel caso in cui quel pallone non viene vinto subito chi è vicino è pronto a recuperare la seconda palla e ripartire, cosa che contro la Fiorentina è stata fatta soprattutto da Lassana Coulibaly che talvolta è mancato nello sviluppo della transizione ma era sempre presente in quella zona sovrastando Duncan e Maleh.

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui