di Giuseppe Barbato

Lunedì mattina, alla radio ufficiale della Lega Serie A, il presidente Iervolino ha parlato di algoritmo a domanda sull’acquisto di Trivante Stewart. Lo ha fatto con queste parole:

Gli algoritmi sono uno strumento formidabile, combinati logicamente all’azione umana, alla visione e alle valutazioni. Ci danno però la possibilità di avere una reportistica e una proiezione dei dati del calciatore che altrimenti sarebbe stato impossibile da valutare

A partire da questa frase c’è stata una ridda di analisi, anche sproporzionate, attorno al ruolo dell’algoritmo e il metodo di scouting. Si è parlato di ‘metodo Moneyball’ e altre cose che non corrispondo alla realtà del lavoro. Il problema non è nelle parole di Iervolino, che ha cercato di semplificare la cosa in buona fede. Sta in una faciloneria, verso dei metodi di lavoro, che non aiuta nella comprensione.

Il metodo Moneyball nel calcio non esiste

Quando si parla di ‘Moneyball’ ci si riferisce al celebre film con Brad Pitt e ispirato al percorso di Billy Beane e Paul DePodesta con gli Oakland Athletics di baseball. Una storia vera, una storia di successo e una storia di innovazione in quel periodo storico. Il metodo utilizzato era quello della sabermetrics, elaborato dallo statistico Bill James. Si trattava di qualcosa specificamente per il baseball, con dei parametri ben precisi. Parliamo di vent’anni fa: oggi il discorso è molto diverso. Siamo in un’epoca dove la data analyst è centrale, a tutti i livelli della società, e ogni settore lavora continuamente per avere un campione di dati attendibile.

La ricerca degli indicatori è fondamentale per saper leggere il dato nella maniera giusta e trarne vantaggio. Nel calcio esistono tanti modi di approcciare il dato, tanti modi di studiarlo e tante scelte diverse sui dati più attendibili. I portali che propongono questi servizi continuamente lavorano per aggiornare i propri database, così come chi lavora in questo settore studia di continuo. Nelle ultime settimane, parlando del Milan e del ruolo di Geoffrey Moncada, uno dei migliori al mondo su questo versante, si è scritto di “metodo Moneyball nel calcio”.

Quello che fa Moncada è un uso molto strutturato della data analyst per scovare giocatori però non è l’unico esempio degno di nota. Un altro esempio è quello di Matthew Benham, proprietario del Brentford, che ha adattato al calcio la sua esperienza di analista per giocatori d’azzardo professionisti raggiungendo ottimi risultati. Proprio Benham usò parole critiche per chi paragonava il suo metodo di lavoro a Moneyball:

The Moneyball label can be confusing because people think it is using any stats rather than trying to use them in a scientific way

Cos’è allora quest’algoritmo?

A questo punto la domanda d’obbligo: l’algoritmo esiste davvero? E come viene utilizzato? Ripartiamo dalle parole del presidente che, giustamente, ha parlato di combinazione con l’azione umana. Questo è il punto centrale del cosiddetto ‘algoritmo’: saper scegliere i parametri giusti, nell’enormità di dati che si possono ricavare. Non esiste l’algoritmo che dice “questo è un futuro campione”, bensì degli indicatori da cui partire. Sono il presupposto necessario per vagliare una serie di giocatori, su cui poi esercitare le scelte in base alle dinamiche del mercato e alle disponibilità economiche. Non possiamo sapere esattamente quali dati sono stati selezionati, per certi versi è un segreto industriale.

C’è un altro aspetto per cui parlare di algoritmo è rischioso: queste operazioni hanno una percentuale di rischio da tenere in conto. Perché il calcio è più sport di squadra del baseball, per tornare a Moneyball, quindi la combinazione di dinamiche è più complessa. Quando parliamo di algoritmo siamo portati a pensare a una cosa assoluta, a una certezza numerica. C’è sempre la mano dell’uomo in questo tipo di lavori, i numeri possono aiutare a ridurre i rischi e i margini di errore. Tenerli a mente è necessario per valutare bene il lavoro.

De Sanctis e la sua squadra lavorano per rendere la Salernitana al passo con i club migliori al mondo. Un’area scouting che sa scandagliare tutti i mercati del mondo può essere la vera ‘top player’ di una squadra. Lo dimostra il Brighton che negli ultimi anni, grazie a massicci investimenti, ha costruito un team in grado di pescare talenti da ogni dove e rivenderli realizzando enormi plusvalenze. L’esempio migliore è quello di Moises Caicedo, preso a 19 anni dall’Indipendiente del Valle (Ecuador) e rivenduto a una cifra monstre. Perché la vera dote non è pescare il singolo talento ma costruire un sistema che sappia farlo con continuità.

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