Io c’ero. Purtroppo. Avrei voluto tanto dimenticare, ma è impossibile. Io c’ero quella mattina alla stazione ferroviaria di Salerno e non avrei voluto esserci. L’incubo è ancora lì, fermo al binario 1. Ha le sembianze di un ammasso di lamiere fumanti. Odore acre. Tosse e occhi rossi. L’incubo è ancora lì, attaccato a quello zainetto carbonizzato che pende da uno dei finestrini. L’incubo si chiama Piacenza. Quella mattina ero al lavoro, come sempre piegato sul computer a incasellare tabellini e numeri. Una telefonata dalla redazione. Poche parole, giusto per raggelare il sangue. Mi precipito per le scale, arrivo trafelato a piazza Vittorio Veneto. I carabinieri presidiano la stazione, non passa nessuno. Mi fingo turista e che sto per perdere il treno, loro ci cascano e mi fanno passare. La corsa sulle scale del binario 1. Arrivo in cima, il fumo è denso. L’odore è fortissimo. I soccorritori mi sfiorano con i loro occhi increduli, c’è un vigile del fuoco con la faccia annerita, seduto a terra. Esausto. Non me la sento di chiedergli nulla. In tasca il taccuino e la penna, ma non riesco a scrivere. Sfilano davanti a me le barelle con i feriti. Polizia ovunque, c’è una tensione irreale. Nessuno vuol pronunciare quella parola: strage. La galleria Santa Lucia appare come un budello nero e fumante, dentro il quale sono precipitati tutti i sogni dei tifosi salernitani. I sussurri dei testimoni parlano di alcuni ragazzi che non ce l’hanno fatta. Non so i loro nomi. Non so nulla della loro vita. Poi i minuti e le ore fanno il loro sporco lavoro e tutta la verità viene fuori. Sono sulla banchina, mi siedo accanto ad un palo. Le lacrime scorrono, non le riesco a trattenere. Lacrime, ancora lacrime. Quella ferita è ancora lì, sulla mia pelle. Da 22 anni ne avverto la presenza. Indelebile.

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