Di Giuseppe Barbato
È il 43° del secondo tempo: c’è una rimessa laterale in attacco per la Salernitana. Mazzocchi la batte e serve Mikael verso la bandierina del calcio d’angolo, il brasiliano però difende la sfera in maniera fallosa. È un attimo di pausa, un momento per riprendere fiato nell’apnea dei minuti finali nei quali ogni palla può essere quella che c’inghiotte e non torniamo più. All’altro angolo, vicino al settore ospiti, c’è Tano Pecoraro. Appoggia la sua macchina fotografica e volge lo sguardo alla sua destra. Guarda il settore ospiti e applaude, da lontano si intravede emozione nei suoi occhi. I 500 cuori granata stanno cantando quel “che vinca o che perda” che ha contraddistinto l’intera stagione: è l’ultimo sforzo per tutti e la sensazione è da brividi. Potrebbe arrivare una vittoria che non è solo una vittoria ma è il grido di una città che non vuole soccombere. Circospetti ci muoviamo, un po’ randagi ci muoviamo noi in questo mare della vittoria che troppo poco abbiamo solcato. L’instant team non l’aveva mai fatto, nonostante le ottime gare per applicazione tattica e dedizione. Aveva pagato a carissimo prezzo gli errori commessi, fino alle 16:25 quando Valeri ha dato il triplice fischio. Genova, che ha i giorni tutti uguali ma le partite no. A fine partita è uscito tutto: c’è chi piange, chi ha la pelle d’oca, chi alza le braccia al cielo, chi si abbraccia. E poi dopo: quando non si smette di cantare e i tifosi doriani ci guardano tutti come se fossimo una bestia rara, una specie in via d’estinzione nel calcio di oggi. Ma se ci guardi in faccia siamo tutti uguali: quella faccia un po’ così, quell’espressione un po’ così che abbiamo noi che abbiamo vinto a Genova.