di Giuseppe Barbato

14 dicembre 1997: il calendario di Serie B prevede lo scontro diretto al vertice tra Venezia e Salernitana. Gli arancio-nero-verdi di Novellino, partiti fortissimo, affrontano i granata ancora imbattuti e in scia della capolista: 28 punti a 27. Sarà una grande sfida, molto equilibrata e senza alcun padrone: così scrivevano i giornali alla vigilia. Per il Venezia sarà una festa a prescindere, dato che si festeggia i 90 anni del sodalizio lagunare ed è prevista una coreografia speciale. Tutto questo sulla carta, la partita dirà molto diversamente ma non ci fu solo quello.

Iniziò tutto in Piazza San Marco, in un raduno organizzato da una frangia della tifoseria mentre l’altra si diresse subito Sant’Elena. La partenza per tutti era dal Piazzale Roma, raduno per autobus, treni e macchine (molto diverso rispetto a oggi, si parte dalla terraferma). Una città viva per tanti aspetti ma un po’ sonnecchiante sul piano calcistico quel giorno era in fermento: sui vaporetti c’erano tante sciarpe arancio-verdi, segno di quanto avessero attecchito Schwoch e compagni. In silenzio seduto, con la sua bandierina granata che non smetteva di sventolare, c’era un bambino di otto anni. Qualche trasferta col padre l’aveva già fatta ma questa era molto sentita, per la posizione di classifica e l’emozione di andare allo stadio in barca.

Piazza San Marco, colorata di granata con i bandieroni e il carosello di cori, fu un colpo d’occhio notevole e l’ideale per raggiungere lo stadio Penzo. Allora come oggi si presenta come uno stadio provvisorio, pieno di tubi innocenti. Inadeguato a categorie importanti, già allora c’erano grosse polemiche per la creazione di un nuovo impianto (Zamparini voleva costruirlo a Tessera, in terraferma). I 3000 salernitani presenti quel giorno vennero rinchiusi in uno spicchio ridotto dello stadio, assolutamente inadeguato a contenerli, e non c’erano rampe adeguate. Per passare da un punto all’altro dovevi scavalcare le grate e passare un punto vuoto. Il rischio di cadere era altissimo, per non parlare dei sobbalzi ogni volta che si alzavano i decibel del tifo.

Il bambino ci riuscì, con l’aiuto del padre e di altri tifosi. All’ingresso delle squadre la curva veneziana mostrò la coreografia per i 90 anni, la Curva Sud all’ordine di Ciccio Rocco scatenò un tripudio di bandiere e petardi che illuminarono di mille colori quello spicchio dello stadio. Pure la bandiera del bambino si unì a quel calore. In campo entrambe le squadre non avevano i rispettivi centravanti, Schwoch e Artistico, con una differenza enorme: da un lato il Venezia, che Novellino auto-definì “la squadra migliore del campionato”, perse quasi tutto il suo potenziale offensivo; dall’altro la Salernitana ne guadagnò in mobilità e imprevedibilità. Il primo gol di Di Vaio, un po’ casuale e con il supporto di Gregori, fu l’innesco di un dominio assoluto.

Il secondo gol di Di Vaio non fu solo meraviglioso per gesto tecnico: fu un’esplosione di gioia, il trionfo dell’adrenalina e una sensazione di dominio incredibile. Un brivido che travolse tutto, nel caso del bambino quasi letteralmente che venne salvato dalla calca della folla esultante. Il Venezia non ne aveva più e nemmeno per la scaramanzia c’era posto: già prima del sigillo di Greco si alzò un coro che ci accompagnò lungo tutta la stagione. E se ne va, la capolista se ne va / la capolista se ne va… in serie A! I giorni di Rossilandia, persi come lacrime nella pioggia di Bergamo, rifiorirono in tutto il suo splendore diventando quella sensazione di suprema beatitudine, come scrisse Brodskij parlando del suo primo incontro con Venezia. Proprio in una sera di dicembre.

La partita è finita, si torna a casa: come all’andata in vaporetto, fino al Piazzale Roma. L’adrenalina è enorme, al punto tale che il vaporetto balla e ondeggia pericolosamente alle grida e ai salti della tifoseria granata. È lì che un signore pronuncia una frase quasi mitologica: “Adesso capiscono come muoiono gli albanesi”. Il riferimento era alla strage del Katër i Radës, avvenuta qualche mese prima: una nave colma di migranti che affondò portando con sé 81 morti. Tutti dicono di averla udita, compreso quel bambino che visse quel viaggio tra il trasporto dei cori e la paura di cadere in laguna. Con i piedi a terra si può tornare a casa, chi a Salerno e chi nelle tante città del nord Italia. Compreso me: allora bambino con la bandiera granata tra le mani, oggi uomo che non ha mai cancellato le emozioni di quel pomeriggio.

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