di Giuseppe Barbato
Andare a Monza significa immergersi nel calcio e nel mondo così come lo pensava Silvio Berlusconi. Ancora in quel mondo, anche se il Cavaliere è morto. Non è semplice nostalgia o un segno esteriore, come quello striscione che campeggia nella curva Davide Pieri che cita una sua frase: “chi ci crede combatte, chi ci crede supera tutti gli ostacoli, chi ci crede vince”. Il Monza resta la squadra e l’ambiente come l’ha plasmato Berlusconi, con l’aiuto di Galliani e dei soldi Fininvest. Famiglie che vanno allo stadio in bici, una tribuna più piena della curva perché il calcio può essere anche una domenica da passare insieme. Una giornata di sole e tanti tifosi mescolati senza problemi. Gli applausi agli avversari che sovrastano i fischi.
Davanti agli occhi c’è un’Italia d’altri tempi, con la musica di ‘Tutto il calcio’ (che non a caso risuona dagli altoparlanti), rassicurante e molto legata al territorio. L’immaginario di Berlusconi applicato al contorno del calcio. Il resto lo fanno Pessina e compagni, tenendo fede a un altro concetto tanto caro: quello del bel giuoco. Anche da queste piccole cose passa la differenza tra il Monza e i vari “Sassuolo” che negli ultimi anni viaggiano o hanno viaggiato per la Serie A. La squadra è agganciata col suo territorio, la sua comunità e le sta vicino. A Monza le partite di calcio hanno un perché e l’irritazione è tutta connessa alla tragedia della Salernitana. Qui arriviamo alla nota dolente, la nostra croce nel Golgota che si chiama “inizio di campionato”.
Perché poi ci sono quei 3000 che sfidano il fatalismo, la crisi e il caldo opprimente della pianura Padana. Affamati di Salernitana più che di calcio in senso stretto. Perché è difficile parlarne quando la classifica e il rendimento sono così pesanti. Furiosi nel momento del dolore, quando la ferita fa più male. Come al triplice fischio, con quel ‘vergognatevi’ urlato più per disperazione che per reale stato d’animo. Guardando la scena è sembrato che quelli che provavano vergogna erano i calciatori, almeno alcuni di loro. Perfino incapaci di alzare negli occhi davanti alle ferite che loro stessi hanno creato. La squadra si è presentata su ordine di Candreva e Paulo Sousa, i soli a farsi coraggio e andare dritti verso il settore (loro due e Maggiore).
Grintosi alla fine, quando la discussione si è scatenata e quando c’è stato lo spazio per cantare davvero insieme. Per se stessi, senza dover qualcosa a qualcuno. Nemmeno allo spettacolo e agli applausi degli avversari. Salerno alla fine ha voluto un momento per sé, per ribadire il proprio amore o cercare da sé una exit strategy. Senza nemmeno tanta voglia di un colpevole ma solo di trovare una speranza, una luce da cui partire. Non a caso le uniche vere note di cronaca del tifo si sono viste nel secondo tempo. Quando Candreva ha guardato la gente, ha implorato un segnale d’amore e l’ha ricevuto. Quando Trivante si è lanciato contro il mondo e ha visto che la gente crede in lui. Vuoi vedere che a questa squadra serve una carezza più che un bombardamento? Scambiatevi un segno di pace, la messa è finita. E anche le scuse.