di Giuseppe Barbato

Minuto 82: Nicola spende l’ultimo slot con tre cambi. Entrano Botheim, Bohinen e Vilhena; escono Piątek, Bradaric e Lassana. Il polacco e il croato escono dal campo dal lato delle panchine, dando il cambio ai compagni. Lassana si trova dall’altra parte del campo e quindi lascia il campo da quel lato, così come da regolamento. Si trova nello spicchio di campo tra la tribuna Tevere e la Curva Nord, diventando subito bersaglio di insulti e ululati. Maglia e colore della pelle sono una combo micidiale per il solito armamentario razzista che contraddistingue una parte della tifoseria laziale.

Lassana sta correndo sul bordo del campo ma le orecchie sono lì, così come le urla. Sente tutto e si volta. Prima stringe i pugni in segno di esultanza, la risposta è feroce e a quel punto scatta con le dita. Tre dita per la precisione, mostrate all’americana. In ‘Bastardi senza gloria’ è un gesto che costa la vita a Michael Fassbender, all’Olimpico una dimostrazione di orgoglio verso quello che si sta facendo. Tutta la scena viene inquadrata dalle telecamere di DAZN e viene notata immediatamente.

La reazione di molti non si limita solo alla soddisfazione per il risultato. C’è coscienza di chi popola quella parte di stadio Olimpico e i precedenti episodi di razzismo che hanno reso famigerata la tifoseria laziale, tutta. Pure chi non si riconosce in quei gesti. Nel cuore della tifoseria granata scatta l’orgoglio, per la seconda volta. La prima fu tre settimane fa, quando il gol di Dia significava vittoria contro un’altra tifoseria nota per episodi analoghi come quella del Verona. Non è solo questione di tre punti: le partite assumono ulteriore significazione, strati di messaggi che si sedimentano nella comunità.

Vince la Salernitana e vince soprattutto un giocatore che non finge indifferenza. Davanti al razzismo risponde: oggi lo fa col sorriso ma sarebbe valso uguale pure se si fosse arrabbiato. Lassana forse non sa chi è Gramsci ma è conscio della sua lezione, del modo di stare nel mondo che promuoveva. Quella risposta di ieri non è provocazione ma un esempio, come Dani Alves qualche anno fa quando gli lanciarono una banana o Vinicius Jr. che non ha smesso di ballare.

Non è solo un messaggio, un motivo di orgoglio: deve essere prima di tutto una lezione. Il razzismo non deve avere posto negli stadi e la soluzione non può essere punitiva. Non ha senso affibbiare diffide o sanzioni ‘ad personam’ per pulirsi la coscienza. Serve un’educazione diffusa, promuovere valori diversi e avere lo stesso rigore se a distinguersi in negativo è qualcuno che indossa la nostra stessa sciarpa. Come dimostra ‘Lazio e Libertà’, progetto che lavora per affrancare quell’immagine dalla tifoseria laziale. Parafrasando il messaggio evangelico: non guardare al razzismo nella bocca altrui ma al razzismo nella bocca tua.

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