di Giuseppe Barbato

Oggi prende il via una nuova rubrica di SalernitanaLive: si tratta di quattro speciali che stiamo realizzando durante questa pausa, con interviste a esperti e addetti ai lavori. Ogni volta tratteremo un argomento diverso a partire dall’attualità della Salernitana. L’obiettivo di questa rubrica è duplice: da un lato guardare le cose con un occhio critico, con l’aiuto di sguardi esterni; dall’altro entreremo nel merito delle situazioni per comprenderle al meglio. La prima puntata è dedicata al giornalismo sportivo e il nostro ospite è Fabrizio Salvio, giornalista di origini salernitane e firma della Gazzetta dello Sport.

Un anno fa per Sportweek hai raccontato la Salernitana a un passo dal baratro. Perché proprio a quel punto, nonostante già da mesi la situazione era chiara?

L’abbiamo fatta in quel momento perché mi è stata chiesta dal direttore, Stefano Barigelli e perché eravamo vicinissimi alla scadenza del 31 dicembre.

Quel racconto lì com’è stato percepito dall’ambiente locale e dalla stampa nazionale?

Dai colleghi nazionali non lo so, non ho avuto dei riscontri perché è più facile ricevere critiche che complimenti nel nostro ambiente. Rimasi discretamente soddisfatto di quel lavoro, mi impegnò per un paio di giorni nella mia città. Michele Spezia fu utile a darmi dei contatti che non avevo più o non avevo mai avuto, dato che lavoro a Milano dal ’93.

Venni criticato su Facebook da alcuni tifosi per aver intervistato anche Angelo Fabiani. Quando si fa un’inchiesta, un reportage è giusto sentire tutte le campane. Salerno era all’epoca avvelenata con la proprietà Lotito, si approssimava la scadenza per cui se non avesse trovato un compratore non avrebbe avuto un futuro in A. Avrebbe dovuto ricominciare dai dilettanti. Un giornalista ascolta tutte le campane così dà modo a chi è criticato di difendersi, di spiegare le proprie ragioni.

Questa è la base del nostro mestiere: bisogna fornire al lettore tutte le informazioni utili e sarà lui a decidere da che parte stare. Se reputare quello che legge verosimile o meno. La verità assoluta non esiste. È chiaro che veniva più facile patteggiare con i tifosi con la città, indispettita da questa mancata vendita della Salernitana. È altrettanto logico che chi vende, soprattutto quando si chiama Lotito che è molto attento al soldo, cerca di fare il proprio interesse; nessuno non fa niente per niente. Questo non vuol dire giustificare Lotito bensì cercare di mettersi nei panni altrui.

Fabiani in quel momento, almeno in mia presenza, non ha difeso il suo presidente. Tra parentesi ora è andato a lavorare ancora con Lotito, come responsabile del settore giovanile della Lazio. Oltretutto rappresentava la società e quindi avrei fatto male il mio mestiere se non avessi parlato con la Salernitana. Nel momento in cui un giornalista viene mandato da un giornale nazionale a tastare gli umori di una città, a proposito del fallimento della propria squadra di calcio, qualunque persona di normale intelligenza si chiederebbe “Scusa, sei andato a Salerno e hai parlato con tutti tranne che con i responsabili, cioè la società?”. E in quel momento la società era rappresentata unicamente da Fabiani. Gli ho chiesto conto, ha avuto la possibilità di raccontare la propria verità. Sportweek non finisce in mano solo ai tifosi di Salerno ma a tutta Italia.

A volte c’è la sensazione che tra la stampa locale e quella nazionale c’è una differenza enorme. E a Salerno questo scarto si amplifica in maniera esagerata. Si è visto un anno fa, si sta vedendo in questi giorni parlando di Nicola. Quanto è reale questa cosa e quanto è amplificata dal contesto Salerno?

Salerno è la classica città del Sud, innamorata e appassionata alla squadra di calcio. Non vale solo al Sud in realtà, al Nord ci sono eccezioni come Verona e Bergamo. Tutto viene vissuto 24 ore al giorno, 365 giorni l’anno. Tutto viene ingigantito, nel bene e nel male. Siamo pronti a passare dall’esaltazione alla depressione. La percezione dei fatti della Salernitana a Salerno è diversa da quella che può avere un giornale nazionale. Tutto viene filtrato e mitigato dalla distanza, dalla poca conoscenza dei luoghi e dei fatti; a Salerno una piccola cosa diventa un dramma ed è logico che giudicare i fatti, mantenendo un certo distacco e stando lontani, ne favorisce l’interpretazione.

Riguardo Davide Nicola dall’esterno, l’ho visto dai social, è sembrato incredibile criticare l’allenatore che ha portato l’anno scorso la squadra alla salvezza e in queste prime 15 giornate ha messo 17 punti. Dall’esterno si guarda al fatto che la Salernitana sia al secondo campionato di A consecutivo, prima volta nella sua storia; si guarda al fatto che da fuori è considerata una provinciale; si guarda al fatto che la squadra non è da primissime posizioni.

Qui entra anche il discorso delle legittime ambizioni, per fortuna aggiungo, del presidente Iervolino; però poi queste aspirazioni si scontrano con la realtà. La Salernitana è una buona squadra, non a caso ha alcuni giocatori al Mondiale, ma da qui a dire che debba arrivare subito dietro le grandi o cosiddette tali forse è un po’ troppo. Da fuori si dice “Nicola vi ha salvati, siete comunque una piccola realtà rispetto. Finora ha fatto 17 punti e siete salvi, perché contestate l’allenatore?”. Man mano che ti avvicini a Salerno città tutto viene vissuto, percepito e sentito in maniera diversa. Fuori da Salerno non trovi i tifosi ma degli osservatori che analizzano la situazione in un certo modo, con un certo distacco.

Hai un presidente con grandi progetti e vuoi vedere quei progetti realizzati. Hai un allenatore che prende delle scoppole come a Reggio Emilia e Monza. Brutte partite dove la squadra non è scesa in campo. Ti accorgi che alla fine dallo scorso anno le vittorie sono pochissime, sono stati di più i pareggi. Forse pensi che “Sì, ce l’abbiamo fatta ma ci siamo arrivati perdendo 4-0 all’ultima di campionato e devi ringraziare il Venezia retrocesso che ha fermato il Cagliari”. Vedi un gioco che non è sempre brillante e il tifoso, di pancia, si chiede “siamo sicuri se questa squadra non può fare di più? Nicola è l’uomo giusto per guidarla?”. Sono le critiche che si prende ogni allenatore che non vince.

In un momento storico nel quale i club costruiscono una brand identity ben definita, lo dimostra la comunicazione della Salernitana, come può la stampa distinguersi, filtrare bene l’informazione e costruire un certo distacco dal contesto?

Sarò breve perché non voglio giudicare il lavoro dei colleghi, dico la mia. Per fare questo filtraggio devi vivere le cose con distacco professionale, non essere a tua volta un tifoso. Qui entrano in ballo questioni generali, il giornale dovrebbe informare senza solleticare la pancia dei tifosi. Poi c’è invece il giornale o il giornalista che va dove tira il vento. Per esempio c’è chi dice “prendo più le parti di Nicola o di Iervolino?” in questa presunta dicotomia. Oppure “Mi conviene scrivere che si può fare di più oppure mi conviene che tutto sommato i programmi sono rispettati?”, se questi programmi puntano a una tranquilla salvezza. Non è solo questione di stampa: oggi ci sono siti, sitarelli, blog. Tutti si arrogano il diritto di dire la propria ed è giusto. La pluralità è un fatto positivo però non sempre fa rima con qualità.

Quando dico ‘informazione non professionale’ non ne faccio una questione di tesserino: ci sono professionalità valide anche se non hanno il timbro da giornalista. Mi riferisco a quella che non risponde ai requisiti base per esempio verifica delle fonti: se ti arriva una voce all’orecchio non significa per forza che sia una notizia. Faccio un esempio stupido: ti dico “vedo un asino volare” non vuol dire che sia una notizia perché te l’ho detto. Stando sull’attualità: se senti voci di un esonero dell’allenatore devi verificarle. Non far passare come verità assoluta le proprie convinzioni: il modo in cui la penso come tifoso non può presentarsi come verità del sito, della radio, della TV per cui lavoro. Se lo faccio non mi devo presentare come giornalista ma come tifoso: segnalare che sto parlando da tifoso e non da giornalista.

In questi ultimi anni il calcio italiano si è sbilanciato verso nord. Poche piazze tra A e B, in questo momento le piazze del Sud stanno facendo male in C e ci sono in D piazze grosse come Catania. Come può il calcio del Sud ricostruirsi e valorizzare le esperienze ed energie positive che ci sono al loro interno?

Il calcio al Sud sconta le difficoltà generali del Sud, purtroppo sono antiche e sono su tutti i piani: economiche, politiche, organizzative, di strutture. Manca un imprenditorialità e una progettualità di questo nome. Troppo spesso il calcio viene fatto da avventurieri improvvisati, anche se questo non vale solo per il calcio meridionale; per esempio il Parma del post-Tanzi. Il paradosso è questo: tanta passione, poca programmazione. Presidenti e imprenditori spesso non hanno la dovuta capacità manageriale e non corrisponde alla passione. A Salerno ne sappiamo qualcosa: negli anni ’70 e ’80 i presidenti spendevano e spendevano ma le cose andavano male. Grandi spese, grandi nomi. Questo è un male del calcio meridionale, per tenere buona la piazza e conquistarsi abbonamenti e simpatie prendi il grande nome e non il giovane sconosciuto.

Mi ricordo quando arrivò Delio Rossi, la gente contestava perché con lui c’erano tanti sconosciuti. Poi abbiamo visto com’è andata. Nel calcio, come nella vita, differenza la fanno la fame, le motivazioni, la qualità. E non è legata al nome. Ci sono tantissimi ragazzi di qualità che aspettano solo l’occasione giusta. Piazze in crisi come Catania, Taranto o Messina non dovrebbero inseguire il rilancio immediato ma programmare in un periodo di 3/4 anni, convincere i tifosi che devono mordere il freno perché gli investimenti porteranno a dei frutti. Ovviamente devono portare a risultati. Vogliamo tutto e subito, oltre al fatto che il Sud sconta quei ritardi che non sono calcistici e ci separano dal Nord del paese.

Su Sportweek a settembre hai intervistato Dia. Ti vorrei chiedere se all’interno del mondo Salernitana c’è un’altra storia che meriterebbe di essere raccontata.

Quella di Pako Mazzocchi per esempio: uno che per sua stessa ammissione viene dalla periferia più borderline di Napoli. Lui stesso racconta che col calcio ne è venuto fuori. Anche Mazzocchi, a proposito di qualità. Non è un terzino ma un esterno d’attacco, almeno nella mia idea dà il meglio dalla metà campo in su: la capacità di controllo di palla in corsa, di giocare con entrambi i piedi. È di livello superiore rispetto alla media. Arriva dal Venezia, una squadra che stava retrocedendo: chi avrebbe scommesso sulla sua esplosione a Salerno? È arrivato perfino in Nazionale. Da salernitano ricordo i discorsi che io stesso facevo da ragazzo quando arrivava un calciatore sconosciuto “ma questo chi è?”. Il pedigree da solo non ti garantisce la buona riuscita di un’operazione.

Questo è un discorso che riguarda tutto il calcio italiano. Piuttosto che approvigionarsi al carrello dei bolliti meglio prendere giocatori diversi: lo dimostra l’Argentina dei campioni datati che hanno perso da un’Arabia Saudita che ha giocato assatanata per 90 minuti. Magari se la rigioca altre cento volte vincono 95, intanto hanno perso quella che conta.

Per me è un discorso generale: il calcio italiano, economicamente in crisi da anni, farebbe bene a fare delle cose. A) Bisogna investire nei propri vivai: investendo in attrezzature, strutture e uomini. Una società come la Salernitana dovrebbe puntare a produrre giocatori in casa. B) Dovrebbe guardare su mercati poco battuti, non è scritto da nessuna parte che se nasci in Arabia sei meno forte di chi nasce in Germania. Rivolgersi meno ai procuratori, fare un lavoro di scouting. C) puntare soprattutto sui giovani che hanno fame, voglia, entusiasmo e non sugli ultra-trentenni che il meglio lo hanno già dato.

De Sanctis può aver sbagliato delle scelte ma quello non lo sai prima. Prendere Dia è stata una scelta azzeccata. Dia ha giocato la Champions però al Villarreal era una riserva e lui voleva giocare per andare al Mondiale. Ha capito che la Salernitana, squadra con minor lignaggio, gli garantiva il posto. E la Salernitana ha approfittato di questa sua ambizione. Legittimo che Dia possa aspirare a una piazza più importante; è altrettanto vero che se vuoi crescere come dice Iervolino non puoi cedere i migliori tutti gli anni. Iervolino deve essere bravo a convincere i vari Dia e Mazzocchi che la Salernitana può diventare, è il mio auspicio, l’Atalanta del futuro. Ci vuole tempo, investimenti e pazienza, innanzitutto da parte della dirigenza che non può pretendere tutto e subito, e bisogna fare le scelte giuste.

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