La curva Furlan, la gradinata degli ultras alabardati

Quel giorno c’era in programma la partita di coppa Italia Triestina-Udinese. Era l’8 febbraio 1984 e tra i tifosi della prima squadra allo stadio dedicato alla memoria di Giuseppe Grezar, centrocampista morto nella sciagura di Superga avvenuta nel 1949, ci andò anche Stefano Furlan, vent’anni compiuti il 23 dicembre precedente. Ma lì intorno, il giorno del derby del Friuli Venezia Giulia, la situazione non era tranquilla tanto che a un certo punto esplose. Dunque vennero schierati i cordoni dei reparti mobili delle forze dell’ordine per fronteggiare buona parte dei seimila sportivi, tanti ne poteva contenere l’impianto di Trieste.
Alla fine dell’incontro, verso le 16.30, Stefano Furlan stava incrociando via Macelli. Doveva recuperare la sua auto, una Fiat 128 che aveva lasciato da quelle parti, e fare ritorno a casa dei genitori. Non era un esagitato, Stefano. Fresco del diploma da geometra, aspettava di trovare un lavoro nel settore in cui aveva studiato e intanto un po’ aiutava un fiorista e un altro po’ occupava metà della sua giornata prestando assistenza a disabili seguito da una struttura religiosa. Tutto questo, però, non lo sapevano i tre agenti che lo avvistarono alla fine della partita e gli furono addosso, a mani nude e con i manganelli. Infine quasi lo sollevarono di peso per portarlo in questura, dove rimase qualche ora per essere alla fine rilasciato.
Renata, la madre, disse al Corriere dello Sport-Stadio, quando il figlio rincasò: “L’ho rivisto alle nove. Quando ha aperto la porta era stralunato, pallido. La giaccia e il piumotto erano a pezzi. Aveva le lacrime agli occhi. “Mamma, sono stato picchiato. Un poliziotto mi ha dato una manganellata sulla testa, poi in questura schiaffi, pugni, calci”. Conosco Stefano, non è un violento, gli ho subito creduto. Non si sentiva bene. Alle nove e mezza era già a letto.
Avrebbe continuato a sentirsi male il giorno dopo, Stefano. Tanto che nel pomeriggio venne portato d’urgenza in ospedale, dove entrò in coma e finì in sala operatoria.
Ma le fratture craniche e le relative conseguenze uccisero quel giovane dopo venti giorni di agonia da cui non si svegliò mai. Era il 1 marzo 1984. Il poliziotto che lo aveva colpito, venne riconosciuto da tre testimoni e sospeso dal corpo. Nel novembre 1985 venne condannato a un anno di reclusione con i benefici della legge. Ma successivamente fu riabilitato e rientrò in servizio presso la questura di Trieste. Ai funerali di Stefano parteciparono anche alcuni ultras provenienti da Salerno.

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